Dal blog del nostro presidente, Alfredo Ferrante, il testo della relazione svolta durante l’assemblea dell’Associazione dello scorso 13 marzo.
Qui di seguito il testo della relazione che ho svolto, in qualità di Presidente, nel corso dell’Assemblea dell’Associazione degli ex allievi dei corsi-concorso dirigenziali della Scuola Nazionale dell’Amministrazione lo scorso venerdì 13 marzo. Ancora grazie a tutte e tutti.
Cari tutti,
per quel che riguarda l’associazione possiamo ritenerci soddisfatti, in primo luogo, di aver consolidato la nostra visibilità mediatica, con una attenzione più che discreta da parte dei giornalisti, come conferma la recente paginata del Corriere della Sera sulla nostra posizione sugli emendamenti al ddl Madia.
Direi, inoltre che ci siamo definitivamente accreditati come interlocutori credibili presso gli attori istituzionali: ricordo qui la nostra audizione in Commissione Affari Costituzionali al Senato, il costante confronto col mondo dell’accademia di settore, i contatti ormai consueti con i nostri referenti istituzionali per rappresentare le nostre posizioni sul processo di riforma in corso.
Sono ormai consolidati i rapporti e l’attenzione da parte di altre realtà associative e sindacali. C’è un confronto costante, ad esempio, con UNADIS, mentre ci consultiamo regolarmente con AGDP. Recentemente, ci siamo incontrati proprio con i colleghi di AGDP e dell’Associazione EticaPA per ragionare assieme su iniziative comuni di pressione sulle linee della riforma.
Dobbiamo, tuttavia, lavorare sul consolidamento della nostra rete con gli altri attori con cui abbiamo intessuto rapporti in questi anni: penso a Cittadinanzattiva, Transparency International e altri, il cui coinvolgimento non può che aumentare il nostro livello di credibilità, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica.
Un miglioramento è necessario anche per la nostra presenza in rete e sui social network: abbiamo chiesto alla nostra addetta stampa di occuparsi anche di questi aspetti, per i quali, naturalmente, è fondamentale la partecipazione di tutti voi.
Registro come sempre un alto livello di attenzione da parte delle colleghe e dei colleghi al quale corrisponde, tuttavia, una fisiologica difficoltà ad attivarsi concretamente secondo il bisogno. Uso il termine fisiologica non a caso, in quanto elemento comune a ogni realtà associativa, politica o sindacale. Abbiamo bisogno di un sostegno concreto, testimoniato innanzitutto dalla quota di iscrizione, che ci permetta di presentarci come interlocutori credibili. Ecco perché non posso non chiedere anche oggi a tutti di fare quanto possibile per dare una mano. Pagare la quota, intanto, a mo’ di simbolico sostegno. Ma, oltre a questo, dare una mano su impegni specifici.
Infine, un tema fondamentale. Chi siamo?
Su questo occorre marcare ancora più chiaramente la nostra identità: non siamo solo dirigenti pubblici. Parliamo ormai di circa cinquecento professionisti che operano quotidianamente in Ministeri, Agenzie ed enti pubblici, a Roma come sul territorio. Molti di noi hanno poi intrapreso altre carriere, operando oggi nelle diverse magistrature, nelle assemblee legislative, nelle organizzazioni internazionali. Qualcuno (pochi) nel settore privato. Ci lega la specificità del percorso di reclutamento e formazione, una condivisione di valori, che unisce una comunità di persone che lavorano per l’interesse generale, a prescindere dal luogo in cui operano.
Aggiungo che si ripropone periodicamente l’idea di allargarci anche ad altri colleghi che hanno frequentato la SSPA/SNA provenienti dai corsi-concorso per funzionari e/o da concorsi interni. Personalmente, senza per questo voler dare giudizio alcuno sui singoli colleghi, sono contrario, per il rischio di annacquamento della nostra peculiare identità. Certamente, non possiamo nasconderci che una eventuale trasformazione in peius della SNA ci imporrebbe un ripensamento.
Sappiamo tutti della riforma in corso, sulla quale più volte ci siamo espressi, in modo critico ma sempre costruttivo e leale. Parto dalle parole dell’intervento di Attilio Vallante, collega che fa parte del Collegio dei Probiviri, all’ultimo Forum PA: non dobbiamo avere paura.
Ha ragione. Abbiamo spalle larghe e possiamo non solo reggere nuove riforme, ma dobbiamo contribuirvi con decisione. Da questo punto di vista, abbiamo il dovere di continuare a dire la nostra, dicendo quello che pensiamo utile per il Paese e, allo stesso tempo, sollevando l’attenzione di operatori, politica e opinione pubblica su quelli che, tuttavia, sembrano restare, su tutti, i punti critici della attuale riforma: la precarizzazione e l’autonomia della dirigenza.
Su questi aspetti non mi dilungo. Il ruolo unico, che abbiamo da sempre sostenuto per avere finalmente un mercato pubblico della dirigenza, si scontra con la zona grigia del tema del mancato incarico e della mancata conferma, che non sono affatto meri tecnicismi, e si somma all’incertezza del destino della SNA.
La mia impressione è che dopo un anno di discussioni e di proclami, si debba constatare che abbiamo di fatto assistito al più classico dei giochi di ruolo, quello del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Quest’ultimo, impersonato dal Presidente del Consiglio, ha abbordato il tema con dichiarazioni al calor bianco, concentrando la potenza di fuoco sulla dirigenza pubblica, da sempre frammentata e con la testa spesso rivolta al passato, incapace di parlare al Paese. Ricordo quanto il Premier aveva sostenuto in occasione dell’insediamento del Governo di fronte alle Camere: è “arrivato il momento di dire con forza che una politica forte è quella che affida dei tempi certi anche al ruolo dei dirigenti e che non può esistere, fermi e salvi i diritti acquisiti, la possibilità di un dirigente che rimane a tempo indeterminato e che fa il bello e il cattivo tempo”. Chiaro, limpido, lineare: politica buona, burocrate cattivo. Si chiama spolis system.
Alla Ministra Madia, invece, il ruolo del poliziotto buono, con affermazioni e dichiarazioni sul tema della riforma che sono state da sempre improntate alla moderazione e al buon senso, a partire dalla valorizzazione del reclutamento a livello nazionale dei dirigenti tramite Scuola Nazionale dell’Amministrazione, sino alla ripetuta intenzione di attuare una riforma che tutelasse, allo stesso tempo, chi lavora nella PA e chi dalla PA ha il diritto di ottenere servizi rapidi, efficaci, concreti.
A leggere gli emendamenti del relatore di maggioranza al disegno di legge delega all’esame del Senato, quello che appare evidente è il riemergere, in tutta la loro forza, delle idee che abbiamo sempre contrastato: una dirigenza precarizzata, selezionata e formata con un sistema di accreditamento a privati, senza vero diritto all’incarico e, in assenza di una seria riforma della valutazione, col rischio di trovarsi di fatto sotto schiaffo della politica. A cui si aggiunge l’incertezza del futuro della SNA.
Eppure, neanche un anno fa la Ministra Madia dichiarava al Parlamento che “il sistema di reclutamento e formazione assicurato dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione ha garantito la selezione di dirigenti di ottimo livello”, reputando utile “estendere questo meccanismo fortemente selettivo anche all’altro 50% della dirigenza. Il reclutamento e la formazione costituiscono un grande investimento che lo Stato fa in ciascun dirigente pubblico: questo investimento va valorizzato, con un percorso di carriera che consenta di impiegare adeguatamente i dirigenti”. Con un repentino dietrofront, invece, il blitz sulla SNA, dettato da motivazioni che sono ben note dentro Funzione Pubblica, sta a testimoniare un approccio credo troppo riduttivo alla riforma della PA: un respiro corto che, invece di immaginare come rimettere in carreggiata una macchina che tutti hanno voluto guidare per conto proprio, valorizzando il meglio che può offrire e puntando sul capitale umano, si affanna troppo spesso a tagliare qua e là, radendo al suolo invece di seminare. E, come non bastasse, insistendo pervicacemente con le nomine della dirigenza politica: davvero eclatante il recentissimo caso della ex senatrice, funzionaria del MIUR, catapultata alla Direzione Generale della Toscana e rigettata dalla Corte dei Conti.
Attenzione però. Se l’Italia soffre di una crisi profonda, che investe famiglie ed imprese, come dirigenti pubblici non possiamo tirarcene fuori ed non assumerci le nostre responsabilità. Va detto chiaro: nella barca Italia politici, imprenditori e burocrati stanno assieme, ed assieme rischiano di andare a fondo.
Ognuno faccia i conti con la propria storia. Noi dirigenti pubblici abbiamo il dovere di difendere il nostro ruolo ma, allo stesso tempo, dobbiamo guardarci allo specchio e fare quattro conti.
Intanto, non siamo mai stati in grado di fare corpo e di accreditarci come forza vitale del Paese: spesso con la testa piegata su una scrivania e con lo sguardo rivolto al passato, abbiamo preferito coltivare orticelli di piccolo potere quotidiano invece di capire che le energie vanno messe assieme. Lo scambio, il mettersi in gioco, il confronto sono stati messi in secondo piano rispetto alla diffidenza del vicino e alla resistenza al cambiamento.
Eppure non siamo tutti uguali: ci sono versatilità, capacità e approcci diversi che vanno messi sulla bilancia. Ma essere valutati ci ha fatto sempre paura, col risultato che tutte le vacche pubbliche sono state sempre nere, Anzi, grigie. Abbiamo accettato per anni un sistema di valutazione comodo, forse inutile, basato su obiettivi condivisi, con la paura di avere valutazioni diversificate, invece di chiedere di essere valutati nella nostra capacità di far funzionare la macchina e di relazionarci con gli attori che, in tanti, bussano alle nostre porte.
Ci siamo lamentati degli sbagli della politica, è vero: riforme poco incisive, invadenza, diffidenza. Ma non siamo stati capaci di iniziativa autonoma, impegnati in difese anche corrette e coerenti, ma senza riuscire a proporre visioni alternative di lungo respiro. Troppo spesso siamo stati chiusi nei nostri uffici, mostrando aperta diffidenza verso tutto quello che potesse farci uscire allo scoperto e guardare in faccia chi abbiamo il dovere e l’onore di servire: i cittadini. Abbiamo talvolta preferito contrattare con la politica posti e incarichi invece di pretendere che la politica decidesse sulla base di criteri chiari e selettivi, scegliendo di andarci a braccetto invece di esserne controparte leale ma autonoma.
Ed infine, non siamo mai stati in grado di parlare con gli Italiani: persi dietro l’anima tutta formalistica della nostra azione, abbiamo fatto parlare per noi le carte, scritte in un linguaggio per iniziati, senza mai prendere posizioni chiare e definitive, ma parandoci dietro l’onnipresente vizio della prudenza a tutti i costi. Non sia mai che un giorno qualcuno ci venga a rendere conto di quello che abbiamo deciso! E rinunciando, così, alla possibilità di incidere realmente su quello che facciamo tutti i giorni, magari schiacciati da un sistema che disincentiva l’iniziativa personale.
In una formula: ci siamo accontentati. E noi, che pure ci siamo distinti nel corso di questi 16 anni di storia, portiamo, paradossalmente, più responsabilità di altri.
Non tutta la dirigenza ha peccato, come non tutti i dipendenti pubblici. Noi meno di altri. E non tutti allo stesso modo. Come la buona politica e l’impresa sana, c’è la PA che fa il suo dovere, e lo fa bene. E se il Paese è rimasto a galla, un merito va riconosciuto anche a quei burocrati che hanno lavorato a tappare le falle. E, tuttavia, se abbiamo l’aspirazione di essere forza che partecipi al rilancio e allo sviluppo del Paese, non può bastare. Serve cambiare, recuperando e valorizzando tutta quella competenza, esperienza e dedizione che tanti di noi hanno da sempre messe in campo e scrollandoci di dosso quella insopportabile coltre di polvere che ha fatto il suo tempo. Alla difesa dei pilastri dell’amministrazione imparziale va affiancata la capacità di partecipare al processo di riforma, e di farlo con lo spirito giusto. Non tutte le riforme sono buone solo per il fatto di introdurre un cambiamento: e sta a noi essere in grado di non dire dei semplici no ma proporre la nostra visione di una PA al passo coi tempi, contrapponendo alle ricette dei tanti, troppi Soloni esperti delle cose di amministrazione l’esperienza di chi sta sul pezzo.
Cosa fare, quindi?
Il lavoro sporco, innanzitutto. Seguire passo passo la riforma e dire la nostra. A questo scopo, pensiamo ad un gruppo di colleghi che lavori su questo, seguendo l’iter parlamentare e sostenendo l’azione di intervento puntuale e specifico. Abbiamo già 4 persone che hanno dato la loro disponibilità e spero se ne aggiungeranno altre. Dobbiamo, naturalmente, essere capaci di continuare a operare con le modalità che ci hanno contraddistinto: posizioni chiare e ragionate, mai nell’interesse particolare di qualcuno o di qualcosa, ma pensando a come possiamo ottenere una dirigenza e una PA che operi al meglio per il Paese.
Dobbiamo poi proporci, ancor di più, come punto di riferimento su un dibattito ampio relativo alla PA in una società moderna. Abbiamo al nostro interno vere e proprie eccellenze e abbiamo la possibilità – il dovere – di dire la nostra su tanti temi che investono l’azione amministrative, pure oltre il confine della dirigenza.
Come prima di tutti abbiamo sostenuto che la trasparenza era la chiave per innovare, proponendo per primi i cv on line, oggi dobbiamo parlare di persone e di organizzazione del lavoro. Che modello di valutazione vogliamo proporre, per noi e per chi lavora con noi? Come gestiamo i nostri uffici? Come gestiamo il nostro personale? Che proposte abbiamo per la finanza pubblica e per una spending review sana? E il tema delle retribuzioni? Possiamo dire che la giungla retributiva è un assurdo e che però ricorrere a un indiscriminato livellamento sarebbe ingiusto, prima che irrazionale? E, ancora: come gestiamo il nostro tempo? Su questo c’è tantissimo da fare e, d’accordo con i colleghi del Consiglio, pensiamo a dei gruppi di lavoro permanenti su questi temi che producano documenti da veicolare anche attraverso una rivista, sul modello dei think-tank già operanti in Italia.
A margine di questa attività che ci aspetta, tuttavia, voglio dire una cosa.
Sono dell’opinione che i vecchi canali di presenza e pressione abbiano fatto il loro tempo. Per intenderci, i soliti convegni con i soliti politici, gli appelli a questo o quel personaggio, le intese sottobanco con questo quel gruppo non solo sono inutili, ma sono deleteri. Questo modo di gestire la nostra presenza, accomunata ai paraocchi che fatichiamo a toglierci, ci hanno portato alla situazione di oggi. Come corpo abbiamo fatto male, malissimo.
Chiedo a tutti quindi una azione trasparente, a viso aperto. Serve metterci la faccia. Basta dirci le cose al telefono, lamentarci – anche giustamente – ma schermarci dietro il timore che esternare una posizione ci danneggi o ci procuri qualche grana. Basta, ragazzi. Se qualche credito lo abbiamo avuto, ce lo siamo guadagnato apertamente, dicendo quello che secondo noi non va bene, senza sconti. Sempre con prudenza istituzionale, naturalmente: se siamo dirigenti dello Stato, non serve urlare o sbracciarci. Le parole pesano se seguono ragionamenti seri, e su questo abbiamo avuto ragione negli anni. Ecco perché vi esorto – “ci” esorto – ad abbandonare quei vecchi schemi mentali che ci hanno sempre contraddistinto come non-classe dirigente.
Là fuori c’è un mondo che corre. E noi dobbiamo tenere le porte dei nostri uffici aperte, perché di quel mondo siamo cittadini a tutti gli effetti.
Grazie
Alfredo Ferrante
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.