Martedì 30 settembre 2014 l’Associazione è stata audita dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato sul DDL Madia di Riforma della Pubblica Amministrazione.
Questo il documento di analisi generale che abbiamo preparato e mandato alla Commissione.
DOCUMENTO DI ANALISI E PROPOSTE
SUL DISEGNO DI LEGGE DELEGA N. 1577
“RIORGANIZZAZIONE DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE”
PERCHÉ UNA P.A. DI TUTTI HA BISOGNO DI TUTTI
PREMESSA
Larga parte del dibattito politico in materia di Pubblica Amministrazione in Italia è stato costantemente contrassegnato da estrema superficialità, affrontando una questione fondamentale come quella del miglioramento dell’azione amministrativa nel solco di contingenze politiche e basandosi spesso su luoghi comuni che hanno leso la dignità dei lavoratori pubblici senza produrre soluzioni di lungo respiro e strutturali a vantaggio dei cittadini.
C’è molto da fare per intervenire in modo efficace e migliorare la macchina dello Stato.
L’Associazione dei dirigenti e dei manager pubblici che vengono dalla Scuola Nazionale ell’Amministrazione, che quest’anno celebra i suoi quindici anni di attività, auspica uno sforzo comune delle forze sane del Paese per una riforma della PA che porti a risultati concreti per l’Italia e servizi più efficienti per i cittadini.
Vogliamo una PA più trasparente ed efficace, con funzionari e dirigenti sempre più motivati e preparati, orientata ad una azione misurabile sui risultati, in cui i cittadini siano protagonisti consapevoli di tutto il processo di formazione ed implementazione delle politiche pubbliche. Una amministrazione al passo coi tempi ed in grado di fare fronte alle sfide europee e internazionali che le sono innanzi.
Per questi motivi accogliamo con favore l’impegno del Governo ad affrontare con decisione questi temi, anche col coinvolgimento attivo dei cittadini e dell’opinione pubblica. Sebbene alcuni accenni troppo polemici sulle burocrazie ci abbiano visti molto critici, vogliamo sperare che la fase di una legittima propaganda politica abbia finalmente ceduto il passo al momento di confronto sui punti cardine della riforma.
Occorre, tuttavia, rispondere ad una domanda: quale PA vogliamo per l’Italia? Il processo messo in moto ha un senso se legato ad una visione strategica della amministrazione pubblica in Italia, sui suoi scopi fondamentali e sul ruolo delle risorse umane. Per noi ogni sforzo deve essere indirizzato verso una PA che sia una delle leve per far ripartire il Paese. Non vogliamo più sentire di lotta fra categorie o rimpallo di responsabilità: serve una amministrazione pubblica sana accanto ad una politica che decide, una informazione equilibrata, un mondo dell’impresa che crei lavoro e valore.
Nessuno si tiri indietro, tutti facciano la loro parte: noi per primi, perché crediamo che una Pubblica Amministrazione di tutti abbia bisogno di tutti. Ed è il motivo per il quale chiediamo ai parlamentari di tutti i gruppi di valutare con grande attenzione i diversi aspetti che compongono la legge delega.
Da parte nostra, in questo breve dossier evidenziamo tre punti che per l’Associazione degli ex allievi della Scuola Nazionale dell’Amministrazione rivestono particolare importanza nel corso della discussione tesa all’approvazione della legge. Non sono i soli: molti aspetti del ddl richiedono riflessione e considerazione. Tuttavia, nell’economia dei lavori e alla luce delle posizioni espresse da altre organizzazioni con cui c’è forte sintonia di intenti come l’AGDP, Associazione Classi Dirigenti delle Pubbliche Amministrazioni (basti citare la soppressione della figura del segretario comunale,
che giudichiamo un errore), ci limitiamo ad analizzare i punti di maggiore interesse per la nostra associazione.
Roma, Settembre 2014
Alfredo Ferrante
Presidente AllieviSSPA
1. ESTENDERE E RAZIONALIZZARE IL SISTEMA DI RECLUTAMENTO E FORMAZIONE TRAMITE LA
SNA
Per quel che riguarda la proposta in materia di accesso alla dirigenza contenuta nella legge delega (art. 10, lett. c) di mantenere due distinti canali di accesso (corso-concorso e concorso per titoli ed esami), essa ci vede fortemente critici.
La conferma di una doppio canale di accesso, infatti, perpetuerebbe la illogicità di fondo propria dell’attuale sistema duale, di cui all’art. 28 del d.lgs. n.165 del 2001, che produce in entrambi i casi la medesima figura dirigenziale, senza distinzione alcuna in relazione agli incarichi attribuibili.
Se questo è il risultato, un percorso più lungo e costoso, selettivo e con una formazione mirata, quale quello del corso-concorso, diviene un inutile spreco se non accompagnato da un conseguente utilizzo di quelle risorse cui lo Stato ha dedicato una così particolare attenzione, tanto che potrebbe provocatoriamente chiedersi l’abolizione dell’istituto del corso concorso, sproporzionatamente oneroso rispetto al risultato.
Si consideri, inoltre che nel personale reclutato tramite la SNA nei cinque corsi-concorso ad oggi conclusi, è cresciuta la parte di allievi provenienti dalle PA. Più che evidente che i funzionari cerchino legittimamente di far carriera, naturalmente. Ma se a ciò si somma la quota di chi accede alla dirigenza attraverso i concorsi interni, è lampante come rischi pericolosamente di venir meno quella iniezione di linfa vitale dall’esterno che contribuisce a vivificare qualsiasi organizzazione. E per una organizzazione come quella pubblica, naturaliter tendente all’ossificazione, ciò equivale ad un arresto mortale del proprio sviluppo.
E, d’altronde, l’auspicio formulato dal Ministro Madia nelle sue dichiarazioni programmatiche alla Camera il 2 aprile di quest’anno sull’estensione a tutta la dirigenza del sistema di reclutamento del corso-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione marcava una felice inversione di marcia: a fronte del reclutamento-spezzatino degli ultimi venti anni, un unico canale di entrata, altamente selettivo e fortemente meritocratico, per cercare le professionalità che servono ad un’Amministrazione moderna, contribuendo a creare, magari, quello spirito di corpo che è sempre mancato alla dirigenza pubblica italiana, frammentata e in ordine sparso.
Si pensi, inoltre, all’elemento distorsivo rappresentato dalla proposta che in esito al corso-concorso si diventi funzionari, con passaggio alla dirigenza, previo esame, dopo un quadriennio (lett. c, punto 1). Non solo, infatti, ciò determinerebbe l’entrata nel corpo dirigenziale ad una età piuttosto elevata, inferendo un colpo mortale alla necessità condivisa di ringiovanire i ranghi dell’amministrazione, ma va a mortificare una esperienza ricca come quella dell’accesso di tanti giovani motivati a seguito del corso concorso: circa 500 donne e uomini dal 2000 ad oggi.
Il modello disegnato dal disegno di legge pare piuttosto replicare l’obsoleto disegno del legislatore del 1957, quando venne introdotta la cd. “carriera direttiva”, ovvero quella categoria di funzionari apicali dell’amministrazione vocati a divenire dirigenti non tanto per merito, quanto per anzianità, secondo un modello di progressione automatica e retributiva nel trattamento giuridico ed economico che prescindeva da qualsivoglia valutazione del merito e della performance.
Ecco perché vogliamo richiamare l’esempio offerto dall’École Nationale d’Administration (ENA), dove si reclutano annualmente alcune decine di figure secondo quote prestabilite: il 50% giovani non facenti parte della PA; il 40% circa interni alle amministrazioni; il resto individui provenienti dal settore privato. Dopo due anni di corso, inframmezzato da periodi di tirocinio, l’approdo al Consiglio di Stato, nella diplomazia, nelle Amministrazioni centrali. Insomma, si desidera, si cerca e si forma l’eccellenza per le posizioni apicali nello Stato.
In questo senso, il ruolo di un’unica scuola governativa di reclutamento e formazione – specialmente alla luce dell’unificazione delle diverse scuole operata dall’art. 21 del DL 24 giugno 2014, n. 90 – deve essere quello di pescare dalle università le eccellenze, non richiedendo più per l’accesso quelle nozioni amministrativo-contabili che occorre dare per scontate, e costruire percorsi sempre più improntati all’esperienza pratica e allo studio dei casi. Non va neppure trascurato il fattore prezioso costituito dal periodo che gli allievi passano assieme, cementando legami che durano nel tempo e che crescono sulla base di una visione e di valori comuni. Auspicabili anche dei test selettivi psico-attitudinali che mirino a verificare quelle doti relazionali, collaborative e di equilibrio indispensabili per reggere una PA che opera sempre più secondo sistemi di reti di public governance.
2. RIPENSARE IL CONCORSO PER UN’AMMINISTRAZIONE PIÙ MODERNA
Siamo favorevoli a ripensare il sistema classico del concorso, che vada a selezionare e mettere in conto attitudini, potenzialità, abilità, attraverso dei test all’ingresso.
Sino ad oggi la selezione dei funzionari e dirigenti pubblici ha previsto un modello basato su prove selettive prevalentemente di tipo nozionistico, mirata a verificare il possesso di conoscenze specialistiche, in particolare di tipo normativo. Inoltre, la verifica delle competenze manageriali si è ridotta, nella maggior parte dei casi, all’analisi di uno o più casi organizzativo-gestionali in forma scritta. Per tale ragione, il modello del concorso pubblico, in particolare modo per i dirigenti, dovrebbe essere improntato alla verifica del possesso di competenze e qualità manageriali e di leadership. Non appare, in tal senso, possibile continuare a richiedere per l’accesso alla qualifica dirigenziale quelle nozioni amministrativo-contabili che occorre dare per scontate.
Se la PA italiana deve partecipare a pieno titolo al processo di sviluppo e crescita del Paese, la ricerca e il reclutamento di giovani preparati e motivati deve diventare una delle priorità dei Governi: si cerchino le migliori potenzialità per affiancare imprese e cittadini nell’adozione delle migliori soluzioni a favore del Paese. E se una solida conoscenza del quadro amministrativo- contabile è condizione necessaria a tutela della imparzialità dell’azione pubblica, essa deve conciliarsi con altre, diverse capacità e caratteristiche, fondamentali per governare tutte quelle reti di interessi che si interfacciano con le pubbliche amministrazioni.
Naturalmente, ed in questo senso sembra muoversi la proposta del Governo, il concorso non potrà che avere caratteristica nazionale. Occorre abbandonare – se non per casi di particolari specializzazioni – l’abitudine di tenere concorsi per singole amministrazioni che stridono con l’idea di una pubblica amministrazione nazionale, nella quale si sia e si venga considerati non tanto e non solo quali funzionari o dirigenti di quel Ministero o di quell’ente, ma dello Stato.
Questo deve comportare una attenta e puntuale attività da parte del Dipartimento di Funzione Pubblica di monitoraggio dei bisogni delle singole amministrazioni, le quali, dal canto loro, devono migliorare in capacità di programmazione e previsione legata all’attuazione delle politiche.
Nell’ottica di sburocratizzare procedure – e personale da reclutare – auspichiamo, quindi, dei concorsi articolati su tre fasi:
a) dei test nozionistici di selezione miranti a ridurre la platea dei partecipanti, evitando la prassi di modularli su batterie predisposte e accessibili;
b) dei test selettivi psico-attitudinali successivi che mirino a verificare quelle doti relazionali, collaborative e di equilibrio indispensabili per lavorare nella PA;
c) delle prove snelle di natura teorica (test, brevi temi, esercizi di studio, risoluzione di casi di studio, capacità di lavorare in gruppo e leadership) e di natura pratica che verifichino, tra l’altro, la conoscenza di lingue straniere e i percorsi formativi e professionali.
3. FAVORIRE LA MOBILITÀ: PER UN CORRETTO FUNZIONAMENTO DEL RUOLO UNICO
Due necessarie premesse sul punto.
La prima: siamo favorevoli a rafforzare i controlli sull’affidamento di incarichi dirigenziali fiduciari che vanno, comunque, ulteriormente limitati a ipotesi eccezionali e temporanee per tutte le pubbliche amministrazioni. E ancora, per essere molto chiari: quando si libera una posizione dirigenziale deve essere sempre assicurata una procedura competitiva aperta e trasparente per far sì che la persona giusta vada al posto giusto, mettendo definitivamente da parte l’abitudine dura a morire di assegnare posti per affiliazione, cordate, simpatie politiche o scambio di favori, una abitudine alla quale non sono estranei anche non pochi fra gli stessi dirigenti.
La seconda: il disegno teso alla nomina dei dirigenti apicali sembra non tenere affatto conto della possibilità, prevista con la riforma del 2009 ed ancora vigente, di concorsi pubblici per la dirigenza generale. Aver previsto che il 50% dei direttori venisse selezionato attraverso una procedura concorsuale sembrava il giusto compromesso fra aspirazioni di carriera e fisiologico grado di discrezionalità del vertice politico. Ci chiediamo perché questa novità sia stata riposta in un cassetto e lì fatta giacere.
Tornando alla legge delega oggetto di analisi, condividiamo l’istituzione di Commissioni per la dirigenza, alle quali vengono demandate rilevanti funzioni sul conferimento e gestione degli incarichi dirigenziali. La questione non è di poco conto: regole certe per assicurare una buona ed imparziale competizione per l’assegnazione delle posizioni sono la migliore garanzia per evitare non solo rendite di posizione e meccanismi opportunistici, ma il migliore funzionamento della macchina.
Particolare attenzione andrà data al quadro delle funzioni attribuite dal disegno di legge alle Commissioni, in quanto il loro ruolo dovrebbe andare largamente al di là dei meri compiti consultivi e di controllo rilevando in momenti decisivi dei processi decisionali concernenti l’utilizzazione della risorsa dirigenziale da parte delle amministrazioni. Dovrebbe al riguardo chiarirsi sin d’ora, tra i criteri di delega, che alle Commissioni sono attribuiti anche compiti regolamentari e di indirizzo in materia di definizione dei criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi, superando l’ambigua formulazione della norma che assegna sia alle Amministrazioni sia alle Commissioni i medesimi poteri regolamentari (art. 10, comma 1, lett. e).
Tuttavia, sin d’ora occorre precisare che la premessa indispensabile al corretto funzionamento del ruolo unico (sia esso per la dirigenza statale, regionale o locale) è il diritto all’incarico al dirigente di ruolo, sia al momento della sua entrata nella PA quale vincitore di concorso, sia in corso di carriera.
Il quadro che noi portiamo all’attenzione del Parlamento deve avere alcuni punti di snodo interdipendenti gli uni dagli altri.
Il primo: un unico, periodico reclutamento di eccellenza attraverso la Scuola nazionale di amministrazione.
Il secondo: la creazione di un unico “calderone”, articolato per livelli di governo, vero mercato pubblico delle competenze in cui si ritrovino tutti i dirigenti.
Il terzo: modalità di mobilità su basi meritocratiche garantite da un organismo terzo e caratterizzate dalla massima trasparenza in ogni fase del processo.
Il quarto: assicurazione di percorsi di carriera sulla base del merito e della valutazione dei risultati conseguiti.
Se questo è vero, sarebbe assai bizzarro che (art. 10, co.1, lettera g), possano esserci dirigenti che restino privi di incarico e per i quali il mancato rinnovo non derivi da gravi e motivate carenze legate ai risultati da raggiungere. Il ruolo unico, in altri termini, deve avere la funzione di permettere una vera mobilità, anche fra centro e periferia, a vantaggio del miglior funzionamento della macchina amministrativa e con lo scopo di raggiungere i risultati dell’azione amministrativa in maniera efficace e senza ritardi. E, soprattutto, senza prevedere, sia pure implicitamente, modalità di automatica espulsione dal mercato del dirigente. Se, al contrario, il meccanismo fosse inteso come meccanismo di fuoriuscita a seguito del mero mancato conferimento dell’incarico (e perché non dovrebbero averlo se non incorsi in gravi deficienze di performance?), la coerenza dell’intero quadro verrebbe a cadere.
Se a ciò di aggiunge che potrebbe verificarsi il caso in cui un dirigente possa ricadere nel quadro delineato dalla lettera g) mentre, allo stesso tempo, un dirigente a “chiamata politica” potrebbe tranquillamente restare al proprio posto, è evidente che occorre porre particolare attenzione ad evitare situazioni di potenziale, grave discriminazione.
Appare dunque necessario estendere anche ai casi di mancato conferimento di incarico la competenza delle Commissioni per la dirigenza, che allo stato limitano il loro intervento alla sola verifica del rispetto dei criteri di conferimento o di mancata conferma degli incarichi.
Per conseguenza, si rende opportuno stabilire uno stretto contatto tra mobilità, attraverso il ruolo unico, e disponibilità del dirigente senza incarico, e chiarire che l’istituto della messa in disponibilità non è un limbo-anticamera del licenziamento, ma una condizione possibilmente temporanea del dirigente privo di incarico. Si dovrebbero prevedere, per l’intero periodo di disponibilità, opportunità e percorsi di formazione e aggiornamento del dirigente, che è in primis una risorsa per lo Stato, che vi ha investito, e la collettività. Egli deve essere messo in condizione di poter accedere ad altri incarichi nella stessa Amministrazione di provenienza o in altra Amministrazione, intervenendo il licenziamento nei casi in cui si registri l’inerzia del dirigente nella ricerca del nuovo incarico.
Un’ultima notazione: veniamo da anni in cui sono stati operati tagli lineari alle dotazioni organiche dei dirigenti pubblici, con percentuali crescenti ed arbitrarie dettate, evidentemente, dall’assecondare spinte emotive e dalla necessità di fare cassa. Auspichiamo che il nuovo quadro derivante dalla istituzione del ruolo unico ponga finalmente un freno a questa deleteria abitudine, legando i bisogni di personale dirigenziale alla puntuale definizione di missioni e programmi in relazione alle effettive esigenze dei cittadini.