Leggo testualmente: “Quando Renzi dice che è contro la burocrazia, siamo tutti d’accordo, anche la destra”. Questa frase, pronunciata in una puntata di “Otto e mezzo” di qualche settimana fa da Gianni Cuperlo, uno dei quattro partecipanti alla “corsa” per Segretario del Partito Democratico, è, a suo modo, davvero illuminante. La ritiro fuori dal sacco senza fondo delle dichiarazioni della politica e dal frullatore dell’informazione per una qualche riflessione più generale sull’atteggiamento che la politica solitamente ha nei confronti dell’apparato pubblico dello Stato. Ma la trovo particolarmente utile per provare a capire quali possano essere le conseguenze di un inesatto utilizzo dei termini da riferire ad un contesto preciso sul dibattito pubblico in corso in questo Paese.
Partendo dal primo punto, nulla di nuovo sotto il sole. Già prima del muscolarismo spinto dell’era Brunetta dei fannulloni e dei “poliziotti panzoni”, la considerazione poco più che supponente che non pochi esponenti della politica hanno avuto nei confronti della burocrazia (sul termine ci tornerò fra poco) è cosa nota. Negli anni, peraltro, molta politica ha utilizzato senza scrupoli la cosa pubblica come merce di scambio politico per acquisire consenso (lasciamo da parte episodi di malversazione, che esulano da questa riflessione), infarcendo gli uffici di personale spesso non utile e, in qualche caso, fidelizzato, contribuendo essa stessa a screditare la reputazione già traballante della cosa pubblica presso i cittadini. Basta vedere un qualsiasi talk show che affronti il tema della macchina dello Stato: pubblica amministrazione come “un sistema basato su corruzione e assunzioni familistiche” ho sentito pontificare in una trasmissione televisiva da un membro del Parlamento. O, meglio ancora, è sufficiente andarsi a leggere i commenti inferociti di lettori sui siti internet dei principali quotidiani agli articoli che denunciano casi di malamministrazione per capire quale sia il clima di sfiducia e malcelato disprezzo in cui oggi opera l’amministrazione pubblica. La quale, beninteso, ha abilmente giocato di sponda nel fare melina e ostacolare – ai diversi livelli – qualsivoglia processo di cambiamento, digerendolo e risputandolo fuori inesorabilmente stravolto, riducendo il tutto al mero adempimento. Su responsabilità e dinamiche molto si è detto e molto ci sarebbe da dire ma, per il momento, basti dire che la resistenza al cambiamento è stata direttamente proporzionale alle successive ondate di epocali tentativi di riforma. Ognuno tragga le conseguenze del caso.
Il problema, e con questo arriviamo al secondo aspetto, è che la furia semplificatrice che spesso è alla base della trasversale coalizione della crociata anti-burocratica non distingue – non vuole o non può, qui non importa – la complessità della macchina pubblica di uno Stato avanzato come indubbiamente è l’Italia. La cosiddetta pubblica amministrazione è oggi composta da un coacervo di tante e diverse pubbliche amministrazioni, divise fra livelli di governo (centrale, regionale, locale) e tra miriadi di competenze che sono cresciute col crescere delle domande, vere o presunte, dei cittadini in termini di politiche e di servizi. Su questo processo, sulle sue dinamiche e sui suoi effetti molto si può discutere (basti pensare a quella giungla affastellata di uffici e dipartimenti che è diventata la Presidenza del Consiglio dei Ministri), soprattutto in termini di deficit di servizi erogati, ma occorre prima di tutto sapere di cosa si parla. Al netto, cioè di ogni attacco, proposta, dibattito o soluzione trovo del tutto incomprensibile, prima ancora che inaccettabile, liquidare una questione di questa importanza per la vita democratica di un Paese col dire “sono contro la burocrazia”. Non occorre scomodare Weber per ricordare che la burocrazia è l’ossatura di ogni Stato moderno e democratico: impersonalità dell’azione e sostituibilità degli individui impiegati sono alcuni degli elementi di un modello che serve a garantire, assieme ad altre leve, l’uguaglianza dei cittadini, l’uniformità di trattamento nel tempo e nel territorio, la certezza del diritto, l’ostacolo a possibili arbitrii. Da qui, naturalmente, si dipanano tutte le difficoltà che una società complessa – e per molti versi, arretrata – come la nostra pone al problema del migliore e più efficace funzionamento della macchina burocratica, ma la presenza di una burocrazia pubblica è intrinseca alla stessa idea di Stato democratico.
Ecco perché, caro Cuperlo, caro Renzi, cara destra, cara politica delle soluzioni semplici, essere contro la burocrazia è come essere contro la pioggia, o contro l’esser maschio o femmina o, ancora, essere contro la politica tout court. Siamo ormai arrivati alla distorsione semantica che serve alla insopportabile e brutale semplificazione di ogni dibattito pubblico che va ad alimentare, nella serena incoscienza degli alfieri delle idee forti, la frammentazione del tessuto civile del Paese. Le parole sono importanti, diceva qualcuno. Parola di burocrate.
Pubblicato su Linkiesta.it
Alfredo Ferrante