di Pellegrino Marinelli
E’ entrata in vigore lo scorso 28 novembre la Legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, meglio nota come «Legge anticorruzione».
Per singolare coincidenza, la definitiva approvazione del disegno di legge governativo ha avuto luogo esattamente nel nono anniversario della Convenzione contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’Onu il 31 ottobre 2003, di cui la legge ha inteso intende dare applicazione. L’altra fonte sovranazionale cui la legge si ispira è la Convenzione penale sulla corruzione, “fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999”, e che perciò rimonta addirittura a tredici anni or sono.
Un ritardo nel recepimento delle iniziative normative europee ed internazionali che si è accompagnato ad una progressiva e sinora inarrestata discesa del nostro Paese nelle graduatorie che, a livello mondiale, misurano il grado di legalità e di trasparenza nella vita pubblica e nelle transazioni economiche private: l’ultimo rapporto di Transparency International colloca l’Italia a pari merito con Bosnia – Erzegovina e São Tomé e Principe quanto a corruzione percepita nel settore pubblico e nella politica, in 72esima posizione su 174 nazioni, con uno scivolamento di tre posti rispetto al precedente rapporto.
Fuori dalle classifiche, le cronache giornalistiche recenti restituiscono i segni di una diffusa illegalità, che a vent’anni da Tangentopoli, sembra essersi reimpossessata dei grandi e piccoli centri decisionali pubblici e di mercato, a livello sia politico che gestionale.
A tutto questo la classe politica ha tentato di dare una risposta, e come spesso avviene in questi casi, lo ha fatto con una nuova legge, piuttosto che con il rafforzamento dei meccanismi già previsti nel previgente quadro ordinamentale. Una legge frutto di estenuanti mediazioni in sede parlamentare, che ha visto la luce con molte differenze rispetto al testo originario, e che, a mio parere, lascia sul tappeto alcuni nodi ancora da sciogliere.
Vediamo perché, attraverso una lettura ragionata dei soli due articoli di cui consta la legge, il primo tuttavia composto da ben 83 commi, e il secondo recante l’usuale clausola di invarianza finanziaria.
Il comma 2 affida alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche i compiti e le funzioni di Autorità nazionale anticorruzione, che in un primo tempo si era ipotizzato di attribuire ad un istituendo Alto Commissario. In clima di spending review, la scelta di non moltiplicare gli organi chiamati a delineare ed assicurare l’attuazione delle misure anticorruzione non può che essere salutata con favore, e restituisce nuova linfa alla CiVIT, la cui immagine, indissolubilmente legata al contesto della «Riforma Brunetta», ha risentito di alcune clamorose vicende, dalle dimissioni con lettera aperta al Ministro di Pietro Micheli al passo indietro del Presidente Antonio Martone. L’integrità, del resto, è parte essenziale della ragione sociale della CiVIT, laddove finora la parte del leone è stata appannaggio dei temi della valutazione e della trasparenza. Nella veste di Autorità nazionale anticorruzione, la Commissione approva il Piano nazionale anticorruzione, predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica, svolge funzioni consultive ed esercita, anche attraverso poteri ispettivi, la vigilanza e il controllo sulle misure anticorruzione adottate dalle pubbliche amministrazioni, riferendone al Parlamento attraverso una relazione annuale.
L’altro attore, chiamato in scena dalla legge, è dunque Funzione pubblica, cui spettano, nel consueto ruolo di coordinamento, la definizione di norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, ma soprattutto la predisposizione del Piano nazionale anticorruzione (comma 4), sulla base dei singoli Piani che ciascuna Amministrazione centrale è chiamata ad approvare. I Piani – che hanno una prospettiva triennale – forniscono una valutazione del diverso livello di esposizione al rischio corruzione degli uffici, definiscono gli interventi organizzativi necessari a presidiarlo il rischio. Le Amministrazioni, inoltre, indicano gli interventi formativi per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, nei quali deve essere prevista la rotazione di dirigenti e funzionari (comma 5).
Fuori dall’ombrello di CiVIT e Funzione pubblica restano le Regioni, comprese le Aziende del Servizio Sanitario, e gli enti locali, i quali sono chiamati ad adeguare i propri ordinamenti ai principi enunciati dalla legge anticorruzione secondo modalità che saranno definite d’intesa con la Conferenza Stato – Regioni (commi 60 e 61). Da come ciò avrà luogo – sembrano suggerire i recentissimi fatti di cronaca – dipenderà una quota consistente dell’efficacia della nuova legge.
La Sspa è dunque chiamata a predisporre percorsi formativi per i dipendenti della Amministrazioni statali sui temi dell’etica e della legalità e, in particolare, deve provvedere alla formazione dei dirigenti e dei funzionari chiamati ad operare nei settori in cui è più elevato il rischio di corruzione (comma 11).
Le singole Amministrazioni centrali sono tenute a nominare un dirigente (di prima fascia) responsabile della prevenzione della corruzione, che – tra gli altri obblighi – predispone il Piano triennale anticorruzione, sottoposto per l’approvazione all’organo di indirizzo politico. Il responsabile definisce altresì le procedure per la selezione e la formazione dei dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione (commi 7 e 8). Con draconiana determinazione, i commi 12, 13 e 14 stabiliscono che, in caso di commissione “all’interno dell’amministrazione” di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile anticorruzione risponda a titolo di responsabilità dirigenziale, disciplinare e per danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione, salvo che provi di aver predisposto il Piano triennale, di averne osservato le previsioni, e di aver vigilato sul suo funzionamento e sulla sua osservanza. Le norme si spingono a predeterminare la sanzione disciplinare, che non può essere inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi. L’entità del danno all’immagine, aggiunge il comma 62, si presume, salva prova contraria, pari al doppio di quanto illecitamente percepito dal corrotto, e ciò sembra valere sia per l’autore del reato che per il responsabile anticorruzione, sottoposto a giudizio davanti alla Corte dei conti.
Molti anni fa ho conseguito la laurea in giurisprudenza con una tesi sul principio di colpevolezza, correlatrice il futuro Ministro Paola Severino. Evidentemente non ho studiato bene, poiché queste disposizioni mi sembrano in palese contrasto con l’art. 27 della Costituzione, norma che – questo lo ricordo bene – riguarda non solo il diritto penale, ma l’intero «diritto punitivo». In capo del malcapitato responsabile anticorruzione si configura una sorta di plurima responsabilità oggettiva di tipo dirigenziale, disciplinare e amministrativo-contabile, in conseguenza della commissione di un reato di cui altri sono gli autori e fuori dai casi di concorso in un reato doloso, che, come è noto, possono configurarsi anche mediante omissione. L’onere della prova si inverte, e con tocca al dirigente la probatio diabolica di aver definito il Piano e di aver vigilato sul suo funzionamento e sulla sua osservanza: se un reato è stato commesso, però, vuol dire che il piano non ha funzionato, oppure che non è stato osservato, e da questo circolo vizioso difficilmente si esce. I confini della colpa grave, stabiliti in tema di responsabilità amministrativo-contabile, paiono ampiamente valicati. Anche la predeterminazione di una sanzione disciplinare minima è forse in contrasto con il principio di colpevolezza, per non dire della quantificazione in via presuntiva del danno all’immagine, che realizza la paradossale conseguenza di equiparare ai fini della responsabilità amministrativo-contabile l’autore di un reato e chi un reato non ha commesso, ma non è riuscito ad impedire.
Ma torniamo al complessivo assetto della legge: in definitiva, una volta individuati i ruoli (CiVIT, Funzione pubblica, singole Amministrazioni, Sspa), il copione resta tuttavia ancora da scrivere, in buona parte attraverso le norme e le metodologie comuni che Palazzo Vidoni è chiamata ad elaborare, e a cui le singole Amministrazioni saranno chiamate ad uniformarsi.
L’auspicio che mi sento di formulare, per la mia pregressa esperienza da internal auditor, è che siano adeguatamente valorizzati gli standard e le buone pratiche, diffuse anche in ambito italiano, sia nel settore privato che in quello pubblico, in tema di fraud audit, non affievolendo e anzi potenziando il ruolo dei controlli interni alle Amministrazioni, cui, in effetti, la legge anticorruzione non fa contraddittoriamente alcun cenno. In tal senso fanno ben sperare i richiami alle diverse esperienze internazionali di Integrity Risk Management, svolti dalla Commissione Garofoli per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, il cui rapporto ha preceduto a stretto giro il varo della nuova legge. Richiami, che trasfusi nel comma 3 della legge, più blandamente si traducono nell’attribuzione a Funzione pubblica dei compiti di coordinare “l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale” e di promuovere e definire “norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali”.
Una norma particolarmente interessante è data dal comma 51, che – novellando il Testo Unico del pubblico impiego – introduce nel nostro ordinamento la tutela del dipendente pubblico che denuncia (all’Autorità giudiziaria, compresa la Corte dei conti) o riferisce (al superiore gerarchico) situazioni di illecito di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro: costui non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro, per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione; la sua identità non può essere rivelata, senza il suo consenso, fino alla contestazione dell’addebito disciplinare che consegue alla segnalazione “sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. La denuncia, inoltre, è sottratta all’esercizio del diritto di accesso. Si tratta di una disposizione che va coordinata con il quadro previgente, che in effetti impone al dipendente pubblico, che sia pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, di denunciare le notizie di reato di cui sia venuto a conoscenza per ragioni d’ufficio (aa. 357 e 358 codice penale), e anzi ne sanziona a titolo di delitto l’omissione o il ritardo (aa. 361 e 362). La norma riprende l’istituto anglosassone del «whistleblowing» (letteralmente il termine indica l’atto di «soffiare nel fischietto»), che accorda protezione legale, anche garantendone l’anonimato, al lavoratore, anche di un’azienda privata, che segnala una possibile frode, o semplicemente un rischio per l’integrità del patrimonio o della reputazione dell’organizzazione.
La funzione di prevenzione generale è affidata a una riformulazione di alcuni reati contro la Pubblica amministrazione (concussione, corruzione «impropria», istigazione alla corruzione), all’introduzione di nuove fattispecie (concussione «per induzione», traffico di influenze illecite), a un blando aumento delle pene edittali (peculato, corruzione «propria» e in atti giudiziari) e alla previsione, in seno al codice civile, della corruzione tra privati (commi 75-87). L’innalzamento delle pene, peraltro, non riguarda l’abuso d’ufficio, e la ragione di questa eccezione non appare facilmente comprensibile.
Fin qui le disposizioni che direttamente riguardano il contrasto alla corruzione, perché gli articoli successivi riguardano ambiti solo indirettamente collegati a quello che dovrebbe essere l’oggetto della nuova legge: la trasparenza amministrativa da realizzare attraverso i siti web istituzionali, sempre meno strumento di comunicazione e sempre più albo pretorio telematico (commi 15 e 32); una nuova disciplina in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi ed incarichi conferiti a dipendenti pubblici (commi 42 e ss.) e di collocamento fuori ruolo di magistrati e avvocati dello Stato (commi 66 e ss.); un rafforzamento dei controlli antimafia in alcuni settori definiti particolarmente a rischio, in prevalenza relativi al settore dell’edilizia e alla gestione del ciclo dei rifiuti (commi 52 e ss.).
La rassegna della legge si chiude con la delega al Governo per l’adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo, a seguito di condanna penale (commi 63-65): secondo i principi e i criteri della delega, l’incandidabilità, tuttavia, è solo temporanea, e scaturisce solo a seguito di sentenza definitiva di condanna a pena superiore ai due anni di reclusione, in relazione ad alcune tipologie di reati: più che sulle misure preventive, per la componente politica delle Amministrazioni si punta a rimedi successivi alla condanna penale, di dubbia efficacia nell’ottica del contrasto alla corruzione, a meno di non voler attribuire alla «sanzione» dell’incandidabilità una funzione di deterrenza così pregnante da impedire senz’altro il compimento di illeciti da parte dei politici che ricoprono cariche amministrative.
È probabilmente questo il principale nodo irrisolto della riforma, contrassegnata da un approccio ancora parziale al tema della corruzione, fenomeno di vasta portata che anche nel nostro Paese trascende i confini del pubblico, per estendersi diffusamente al settore privato: secondo il Barometro di Percezione della corruzione di Transparency International, edizione 2010, basato sulla tecnica del sondaggio d’opinione, il grado di corruzione è esattamente lo stesso per i pubblici ufficiali e il settore privato, e la previsione di un nuovo reato di corruzione tra privati, peraltro di norma perseguibile a querela di parte, non accompagnata da una complessiva rivisitazione del falso in bilancio, rischia di lasciare senza soluzione una parte consistente della questione. Non lo dico io, ma assai più autorevolmente l’ufficio studi della Suprema Corte di Cassazione.